«Se i miei film riflettono in qualche modo la mia personale visione del mondo, lo fanno mostrando la vittoria finale del Bene sul Male, esito in cui credo fermamente. Può volerci molto tempo, ma alla fine è sempre così che vanno le cose». Con queste parole, il regista inglese Terence Fisher sintetizzava al meglio quel dualismo Spirito e Carne, Luce e Tenebre, Bene e Male, che ha costantemente attraversato la sua filmografia fin dalle prime regie. Punta di diamante dell’affiatata squadra di artisti e tecnici messa in piedi dalla piccola casa di produzione Hammer, Terence Fisher ha raggiunto la notorietà alla fine degli anni Cinquanta con le atmosfere gotiche e vittoriane di un genere horror che portò alla ribalta internazionale il cinema britannico. La maschera di Frankenstein, Dracula il vampiro, La vendetta di Frankenstein, La furia dei Baskerville, La mummia: sono alcuni dei titoli che hanno segnato il felice sodalizio tra Fisher e la Hammer, interrotto dopo tanti successi dall’inevitabile declino degli anni Settanta quando nuove scelte produttive stavano ormai orientando i gusti del pubblico verso storie dell’orrore più violente e contemporanee.

Considerato niente più che un semplice artigiano e mestierante, per troppo tempo Fisher è stato sottovalutato (o addirittura disprezzato) dalla critica. Il regista rispondeva così alle pessime recensioni: «Alla fine, le persone di cui devi catturare l’attenzione e dalle quali ottenere il gradimento sono gli spettatori». Solo tardive e postume riabilitazioni ne hanno fatto emergere un’abilità, uno stile e una raffinatezza tali da poterlo considerare a suo modo un autore, nonostante non abbia mai scelto di propria iniziativa i soggetti da adattare per il grande schermo e non abbia mai avuto l’opportunità di lavorare in produzioni ad alto budget. Attraverso un profilo esaustivo della vita e della carriera di Terence Fisher e il racconto di quel mondo gotico fiabesco e grandguignolesco che ha finito per connotarne la poetica cinematografica (nonostante si sia destreggiato anche in altri generi), questo saggio scritto da Mario Galeotti vuole proprio affermare in maniera definitiva e incontrovertibile lo spessore autoriale di un regista a lungo ingiustamente emarginato.

Cover di Giorgio Finamore.